L'INFERNO E IL PARADISO DI LEONARDO (SECONDA PARTE) |
I - LA FESTA DEL PARADISO
Descrizione della Festa Il 13 gennaio 1490, venne rappresentata, alla Corte degli Sforza, la prima opera teatrale di cui si sappia con la scenografia di Leonardo da Vinci. L'intrattenimento era stato creato per volere di Ludovico il Moro in onore di Isabella d'Aragona, sposa di Gian Galeazzo Sforza ( Isabella era nata nel 1470 da Ippolita Maria Sforza e Alfonso II° d’Aragona, re di Napoli.Alla morte del marito e dopo l’invasione dei Francesi a Milano nel 1499, divenne Duchessa di Bari dove si trasferì con la figlia Bona e dove morì nel 1524). È, Gian Galeazzo, il nipote del Moro e duca di Milano e Ludovico è suo tutore. Le nozze fra Isabella e Gian Galeazzo erano state celebrate nel febbraio dell'anno precedente (1489), ma non si erano potuti svolgere i consueti fastosi festeggiamenti a causa della morte di Ippolita, madre della sposa. La Festa del Paradiso sembrava essere così la naturale continuazione dei festeggiamenti nuziali che si erano dovuti sospendere e rimandare a tempi migliori. Nel medesimo tempo l'occasione festiva si presentava come un'ottima opportunità per il Moro per riaffermare la sua potenza, stupire la corte e gli invitati e far apprezzare la sua grandezza: la festa dunque come strumento per rinsaldare la propria posizione egemonica e salvaguardare i propri interessi, sia sul piano della politica interna, sia su quello della politica estera. (fig.1) La Festa del Paradiso costituisce uno degli esempi compiuti di drammaturgia festiva del Rinascimento italiano. La festa quattrocentesca, in quanto sistema in cui convergono molteplici elementi, è l'espressione di un gruppo culturale - quello della corte - che attraverso la festa stessa si rappresenta e si celebra, facendo uso, a questo scopo, di tutti gli elementi espressivi di cui la società di corte dispone (poesia, musica, danza, rappresentazione teatrale, arti figurative e plastiche, ecc.). Una particolareggiata descrizione della festa ci è stata trasmessa da un testimone oculare, Iacopo Trotti, ambasciatore estense a Milano, che vi aveva partecipato con entusiasmo, guardando con meraviglia all’ impianto scenografico vinciano, che compariva improvvisamente, una volta calato il “ sipario” di raso che lo nascondeva alla vista, nel buio della sala, illuminato con vari giochi di luce. Lo spazio destinato alla rappresentazione teatrale fu la sala grande del palazzo, resa elegante dagli addobbi sfarzosi e dalle decorazioni, con coperte di raso alle pareti, per celebrare la grandezza degli Sforza e degli Aragonesi. Il documento, ritrovato in un codice della Biblioteca Estense di Modena (Solmi, 1904), narra dettagliatamente sia la parte coreografica sia quella teatrale. Il testo usato per la rappresentazione teatrale fu un libretto commissionato al poeta Bernardo Bellincioni, poeta fiorentino morto prima del 1493 (di lui resta la seguente raccolta: B. Bellincioni, Rime dell'arguto et faceto poeta Bernardo Bellincione fiorentino, raccolti da padre G. F. Tanzi, e pubblicati dopo la morte dell'autore, Milano, 1493;) che passò di corte in corte scrivendo rime e sonetti . Lo spettacolo si svolse al Castello Sforzesco e , dalla descrizione che ne fa il Trotti si è potuto identificare il luogo della rappresentazione con la Sala Verde, affrescata da Leonardo ( oggi purtroppo della decorazione non ne resta più traccia) , una sala lunga e stretta, con sette finestre che si affacciano nel cortile del castello, l'ingresso della Sala è posto su uno dei lati stretti. Da alcune descrizioni del Castello fatte ai tempi e dal commento stesso del Trotti, la Sala Verde coincide con la cappella privata del Duca.(fig.2) Entrando nella sala, sulla sinistra erano collocate le gradinate destinate ai gentiluomini, dalle quali "potesseno tutti ben vedere". Di fronte ad esse, dalla parte del lato corto della sala, stava invece un palchetto più piccolo, alto solo due braccia, su cui stavano i musici. Ancora sul lato sinistro, quello su cui si aprivano gli accessi agli appartamenti ducali, al centro stava il tribunale d'onore il quale, ricoperto con ricchi drappi, era destinato ad accogliere i duchi ed i personaggi più importanti. L'ultimo elemento relativo all'apparato è quello che doveva servire per la rappresentazione del Paradiso. Esso occupava il secondo lato corto della sala, quello di fronte all'entrata, proprio in corrispondenza dell' altare della cappella, confermando in tal modo la sovrapposizione - non solo metaforica - fra luogo della rappresentazione scenica e luogo sacro. La sala del castello, trasformata in luogo teatrale, assumeva pertanto una disposizione a ferro di cavallo, disposizione perfettamente adeguata alla concezione della festa del Paradiso come un insieme di eventi spettacolari: le danze eseguite dai principi, i balli delle maschere e infine la rappresentazione più propriamente teatrale. Fra le danze e la rappresentazione vera e propria non c'è soluzione di continuità spaziale e temporale e ciò è rimarcato anche dagli addobbi alle pareti e dai ricchi drappi delle gradinate e del tribunale che, sottolineando la destinazione festiva della sala, la collegano alla scena teatrale in una dimensione spaziale unitaria. Fra momento della rappresentazione e momento coreutico esiste anche una unità intenzionale; tutti, attori e danzatori, porgono il loro deferente omaggio alla duchessa. Nel momento in cui gli attori recitano i versi del Bellincione, tessendo l'elogio dei duchi, o quando i danzatori mascherati recano ad Isabella il saluto dei sovrani di lontani ed esotici paesi, cade ogni differenziazione fra lo spazio in cui si trovano i duchi e quello dove ha luogo l'azione teatrale. La struttura di questa festa era composita: ad una prima parte con una serie di fastose ambascerie, in parte fittizie in parte reali, che rendevano omaggio alla coppia ducale con entrate solenni,cavalli e cavalieri, danze e doni spettacolari, seguiva una rappresentazione allegorico mitologica prototeatrale. Le ambascerie degli allora “ grandi “ della Terra venivano seguite dalle ambascerie dei “ grandi” del Cielo con tripudio di Grazie, Virtù e Dei guidati da Giove in persona. La rappresentazione teatrale inizia a mezzanotte e mezza (orario scelto come propizio dall’Astronomo di Corte), al termine delle ambascerie terrene; dopo la caduta di un primo sipario di raso, con un controluce e le figure velate, un angelo viene ad annunciare la rappresentazione. Il Paradiso era fatto a forma di semiuovo, tutto d’oro all’ interno, con molte luci che davano l’impressione delle stelle e con delle nicchie o alloggiamenti dove stavano gli attori, vestiti secondo la tradizione classica, che rappresentavano i sette pianeti, posizionati a seconda del loro grado. Sulla parte superiore dell’ uovo erano posizionati dodici tondi di vetro decorati con i dodici segni zodiacali e con dei lumi dentro. Il tutto era accompagnato da suoni e canti soavi (non dimentichiamo che Leonardo arrivò alla corte degli Sforza in qualità di suonatore di cetra ed è certo che nella sua vita si occupò pure della composizione musicale ). Una volta fatto il silenzio e caduto il velo che ricopriva lo spazio teatrale, inizia a parlare Giove che, rivolgendosi ad Apollo , gli narra delle bellezze di Isabella d’Aragona e di come abbia intenzione di recarsi sulla terra a vederla di persona. Apollo ne è sconcertato: non conosce Isabella, di cui Giove parla come se fosse una novella dea; così , mentre gli dei discendono dall’Empireo alla cima del monte terrestre guidati da Giove, viene mandato in Terra Mercurio, a “ controllare” di persona e a portare alla sposa gli omaggi di Giove. Una volta tornato al consesso degli Dei, pure Mercurio narra delle bellezze di Isabella. Alle lodi di Mercurio si uniscono la Diana (la Luna), Venere, Marte, Saturno e Apollo, finalmente convinto. Giove fa chiamare le tre Grazie e le sette Virtù e comunica loro che ha deciso di mandarle in dono ad Isabella. Apollo si offre di accompagnare Grazie e Virtù da Isabella, per presentare il dono e poterla omaggiare di persona. Così succede: Apollo porta il dono di Giove ad Isabella e le regala inoltre il libretto con le rime del Bellincione recitate durante la festa. La festa si conclude, dopo dei sonetti recitati da Grazie e Virtù, con l’uscita di Isabella da loro accompagnata verso gli appartamenti nuziali.
Riedizione della Festa Nel 2000 a Legnano, nell’ambito delle manifestazioni per la Sagra del Carroccio, si è pensato di rimettere in scena la Festa del Paradiso , per la prima volta dopo il 1490, in omaggio ad un noto ed importante studioso di Leonardo , Augusto Marinoni, legnanese ( per intenderci lo studioso che trovò nelle carte di Leonardo il prototipo della bicicletta). Con Massimo Gambarutti sono stata contattata ancora nel 1999 per la realizzazione delle scenografie che avrebbero fatto da contorno alla Festa. E’ partito così un lungo periodo di ricerca sia cartacea che multimediale, sia in Italia che nel resto del mondo.Tra l’ altro abbiamo avuto dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano la possibilità di visionare i 12/13 enormi tomi del facsimile realizzato alla fine del ‘700, inizio ‘800. Il materiale del Codice Atlantico abbraccia l'intera carriera di Leonardo, per un periodo di oltre quarant'anni, dal 1478 quando aveva ventisei anni fino alla morte avvenuta in Francia nel 1519. Un materiale amplissimo e quanto mai interessante, che meriterebbe sicuramente una lettura più attenta di quella che ci fu possibile fare.Tra l’altro il codice Atlantico abbraccia tutto il periodo Milanese di Leonardo da Vinci , ed oltre ai disegni e agli studi vi si trova un po’ di tutto. Ma nulla riguardo alla Festa del Paradiso. Anche alcuni fogli del Codice Arundel che riportano alcuni schizzi scenografici con il riferimento al Paradiso, si sono rivelati certamente inerenti ad un Paradiso, ma a quello di Plutone , e furono usati da Leonardo per la realizzazione dell’ Orfeo di Poliziano. Per circa un anno abbiamo letto tutto ciò che ci è stato possibile su Leonardo, saccheggiando biblioteche e librerie. Ho personalmente viaggiato in rete per mesi, andando a visitare qualsiasi pagina parlasse di Leonardo e magari anche solo incidentalmente della festa del Paradiso. Anche una volta esaurito l’evento, non ho perso l’abitudine per cui continuo a leggere e ad interessarmi dell’argomento. Ma tutte queste ricerche non hanno dato frutti....sembra che Leonardo non abbia lasciato alcuna traccia scritta su questa Festa. Anche la ricostruzione fatta dalla Rai nello sceneggiato “ La vita di Leonardo da Vinci”, regia di Renato Castellani, trasmesso dal 24 ottobre 1971, come precisato dalla voce narrante, è da ritenersi arbitrario in quanto non esistevano fonti a proposito. Ci siamo così dovuti rifare solo ed unicamente alla descrizione che della Festa ne fece il Trotti. Per prima cosa abbiamo deciso di eliminare qualsiasi artifizio o macchina di scena. Se ci fossero stati palcoscenici girevoli o macchine mirabolanti sicuramente il Trotti ne avrebbe parlato, con grande meraviglia, nella sua relazione. Ma sia dalla descrizione suddetta che dalla prefazione che il Bellincioni fa alla sua opera “Il Paradiso” usata per la rappresentazione, è chiaro che non vi fu impiego di mezzi tecnici. Il movimento dei Pianeti non dipende da alcun meccanismo scenico , sono fisicamente gli attori che impersonano i Pianeti a muoversi, camminando, durante la rappresentazione. Come dice Augusto Marinoni ne “ Il regno e il sito di Venere” : “ La Favola del Bellincioni, rappresentata nel 1490 era la residenza degli dei superiori, il “ Paradiso di Giove”, ed era posto fra le cime dei monti, là dove la terra si inalza e quasi si congiunge al cielo. Un semplice spostamento di Giove o di Apollo da un punto all’altro del palcoscenico, dall’una all’altra cima di monte, poteva rappresentare una discesa dal cielo sulla terra, come pure sappiamo che gli abitatori celesti (Grazie e Virtù) scendevano dal palcoscenico fra gli spettatori per recarsi dalla duchessa e parlarle, come fosse una di loro, e quindi accompagnarla nelle sue stanze, come se la reggia milanese fosse non molto diversa da un vero paradiso.” Data anche la struttura originale della Sala Verde e l’ipotesi che lo spettacolo si svolgesse all’aperto senza particolari restrizioni per le dimensioni, nel rispetto del materiale che Leonardo poteva aver usato, venne studiata una struttura in legno a cui agganciare una “cupola” in stoffa dorata.(fig.3) Le dimensioni della cupola erano di mt. 5,60 di larghezze x mt.5,60 di altezza per mt.2,80 di profondità. Sul lato esterno si posizionava una fascione in legno largo mt.1,00 che circondava l’imboccatura della cupola, e recante i 12 segni zodiacali in vetro dipinto e illuminati dall’interno. All’interno della cupola trovavano posto 7 rampe disposte a semicerchio e in misure degradanti da un’altezza al culmine di 80 cm. ( sito di Giove) a 20 cm. per i due Dei “minori” . davanti al palcoscenico su cui sarebbe stata montata la cupola, una scaletta nascosta da una sagoma rappresentante la cima di un monte avrebbe permesso la “ discesa” dei personaggi che si sarebbero recati da Isabella. Putroppo, per problemi di finanziamenti, fummo costretti a rinunciare a realizzare questo progetto di scenografia, sostituendolo con una specie di “ Limbo” di oltre 100mq. di stoffa bianca che circondava i luoghi della corte e contornava il palcoscenico dove si svolgeva la parte attoriale. Nello svolgimento dello spettacolo molta parte venne data ai “ contorni” con la ricostruzione di danze e musiche dell’ epoca.
II - LA CORTE DE’ MEDICI Nel 1438 l’Imperatore Bizantino Giovanni VIII Paleologo e il Patriarca di Costantinopoli arrivarono in Italia per partecipare ad un Concilio che aveva lo scopo di appianare le controversie tra la Chiesa di Roma e la Chiesa Ortodossa ed evitare così uno scisma. Inizialmente il Concilio iniziò a Ferrara ma dopo lo scoppio improvviso di un’epidemia di peste, fu trasferito a Firenze, dominio di Cosimo de’ Medici, banchiere del Papa. Il Concilio ebbe inizio l’ 8 ottobre 1438 e finì con la partenza dell’Imperatore Bizantino il 26 agosto 1439 senza particolari risultati ma solo con vaghi accordi tra le due Chiese. Ma se il Concilio di Firenze ebbe pochi risultati per l’unità dei cristiani, ebbe enormi conseguenze di altro genere. Per sostenere la causa della Chiesa ortodossa l’Imperatore si era fatto accompagnare da circa 650 eruditi ed ecclesiasti che erano arrivati in Italia con un gran numero di manoscritti originali in lingua greca, compresi alcuni testi sconosciuti in Occidente come ad esempio alcune opere di Platone. Fra gli eruditi più eminenti era Giorgio Gemisto il quale, durante il Concilio, adottò il nome di “Pletone”; egli era un filosofo “ pagano” e avversava il cristianesimo e Aristotele. Nella Firenze dell’epoca si era sviluppata una cultura secolare, libera da coercizioni ecclesiastiche ed affrancata dai sensi di colpa istillati dalla dottrina della Chiesa di Roma. Fu in questo ambiente che Pletone trovò il suo luogo ideale e potè finalmente dare libero sfogo alle sue idee che invece aveva dovuto tenere nascoste nel regno bizantino. Prese contatto con gli Umanisti fiorentini, tenne loro molte conferenze nelle quali raffrontava Aristotele e Platone, e diffondeva le dottrine misteriche di cui era edotto. Tra i suoi ascoltatori stava proprio Cosimo de’ Medici che rimase talmente affascinato da ciò che Pletone proponeva da decidere di dedicarsi all’ambizioso progetto di fare di Firenze un centro di studi platonici. A base del suo programma pose la creazione di un’Accademia del tutto simile a quella ateniese. Neppure con la partenza di Pletone nel 1439, Cosimo si perse d’animo. Si dedicò a reclutare insegnanti e a raccogliere testi; inviò agenti in Oriente alla ricerca di manoscritti per arricchire la Biblioteca di San Marco, sede dell’ Accademia, che arrivò a contenere circa 10.000 volumi. Il progetto proseguì lentamente fino al 1453, quando Costantinopoli cadde in mano ai Turchi. Una delle conseguenze di questo avvenimento fu l’esodo massiccio di eruditi ed ecclesiasti che fuggirono portando con sè opere manoscritte di inestimabile valore. La maggior parte dei fuggiaschi arrivò in Italia attraversando l’Adriatico e, arrivati a Firenze, diedero nuovi impulsi all’ Accademia. Nel 1459 Cosimo de’ Medici chiamò a Firenze uno studente dell’Università di Bologna, Marsilio Ficino, a cui diede l’incarico di presiedere l’Istituzione. Ficino, figlio di un medico, era nato vicino a Firenze nel 1433 e aveva compiuto studi umanistici diventando un profondo conoscitore, oltre che delle materie tipiche dell’ epoca, anche di musica, lingua e filosofia greca. Lo studio del pensiero greco aveva inferto un duro colpo alla sua fede e, pur accusato di eresia dalle istituzioni religiose, proseguì i propri studi sotto l’appoggio dei Medici, cosa che gli garantiva che l’accusa di eresia non gli sarebbe costata la vita. Così a 26 anni il giovane Ficino si stabilì nella sede dell’Accademia i cui frequentatori abituali non erano solo studiosi, ma anche artisti, banchieri, uomini di legge, mecenati, politici ed ecclesiasti. Ogni anno, nella villa di Careggi, Cosimo il Vecchio, il 7 novembre, riuniva a banchetto un ristretto numero di eruditi e insieme festeggiavano l'anniversario della nascita e della morte di Platone: davanti ad un busto del filosofo greco, due tra i commensali iniziavano una disputa filosofica sulle origini dell'Umanità e sulla sua evoluzione. Il tutto terminava con l'elogio di Platone che i presenti intonavano insieme come a recitare un rituale filosofico. Per conto di Cosimo, Ficino tradusse alcune preziose opere di Platone e nel 1460 venne incaricato della traduzione di un’ opera che era appena giunta a Firenze: il Corpus Hermeticus attribuito ad Ermete Trimegistro e più esattamente una copia dell’ XI secolo appartenuta a Michele Psello (studioso bizantino, filosofo, storico e teologo). Nel 1463 Ficino fu in grado di offrire a Cosimo de’ Medici una prima stesura della traduzione in latino. Col Corpus Hermeticus la tradizione, l'arte reale, la scienza sacra e l'alchimia, fecero il loro ingresso nell'Accademia di San Marco. Nel 1464 Cosimo de’ Medici morì. Dopo qualche anno di potere di Pietro, nel 1469 il comando passò a Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico. Erede di Cosimo , Lorenzo il Magnifico (fig.4) trasformò il suo palazzo in una corte, coinvolgendo i più brillanti ingegni della cultura fiorentina, per consolidare ancor più la lunga stagione del primato intellettuale della città. Accorto politico e artefice dell' equilibrio tra i cinque potentati italiani nella seconda metà del '400, seppe con grande avvedutezza e sensibilità culturale apprezzare il mondo delle arti e delle lettere, arricchendo le biblioteche di codici e di libri (Biblioteca Medicea Laurenziana e Biblioteca del convento di San Marco). Fu protettore , oltre che di Ficino, di Pico della Mirandola, del Pulci, di Poliziano. Leonardo si avvicinò alla politica medicea all'indomani della congiura dei Pazzi (26 aprile 1478) eseguendo, il 29 dicembre 1479, il disegno di Bernardo di Bandino Baroncelli, spietato assassino di Giuliano de' Medici. Uno stretto legame, quello di Leonardo con l'ambiente mediceo, che fu rimarcato dall’ Anonimo Gaddiano ( cronista dell’epoca): "stette da giovane col Magnifico Lorenzo de' Medici, et dandoli provisione per sé il faceva lavorare nel giardino sulla piazza di San Marco di Firenze". Nel giardino di Piazza San Marco, l'artista si esercitò sotto la guida di Bertoldo di Giovanni. Tra i personaggi che animarono l'ambiente mediceo, un posto di tutto rilievo spetta ad Angelo Ambrogini (1454-1494), detto il Poliziano dal nome della città di origine, Montepulciano. Egli era il tutore dei figli di Lorenzo, tradusse Omero e fu l’autore dell’Orfeo. Sandro Botticelli lo ritrasse tra i grandi personaggi fiorentini del suo tempo in adorazione della divina sapienza (Adorazione dei Magi, Firenze, Uffizi) e Domenico Ghirlandaio lo raffigurò sia nella Cappella Tornabuoni in Santa Maria Novella insieme alle "verae imagines" del Ficino, del Landino (che nel 1481 pubblicò un’edizione della Divina Commedia di Dante con illustrazioni di Botticelli) e di Demetrio Greco, sia nella Cappella Sassetti in Santa Trinita a Firenze . Era stato Marsilio Ficino a raccomandare Poliziano al Magnifico parlando di lui come quell' "omerico giovinetto" che aveva composto odi, elegie, epigrammi in greco e in latino. Così, dopo aver continuato la versione dell' Iliade, già iniziata dall' aretino Carlo Marsuppini, ricevette da Lorenzo de' Medici l' incarico di cancelliere privato e di educatore del piccolo Piero. E fu poi Marsilio Ficino che lo introdusse alla filosofia platonica, come Giovanni Argiropulo lo aveva avviato alla conoscenza della filosofia aristotelica. E per la stretta amicizia e la profonda familiarità con Giovanni Pico della Mirandola (tra le altre cose anche studioso di Qabbalah), che aveva messo ripetutamente in discussione l' autorità di Marsilio Ficino cercando di trovare una "concordia" tra i due indirizzi filosofici, Poliziano orientò il suo impegno e il suo interesse verso lo studio dell' Etica e della Fisica di Aristotele, di cui sono rimaste, a testimonianza delle sue lezioni accademiche, il Panepistemon (1491) e la Lamia (1492). Nel 1475, per celebrare la vittoria riportata da Giuliano, fratello di Lorenzo, durante la Giostra (28 gennaio) che ebbe come teatro la piazza di Santa Croce, Poliziano compose le Stanze, pubblicate poi nel 1494: un poemetto in cui si riscontrano elementi edonistici e naturalistici, ma anche intonazioni di derivazione neoplatonica. Il disegno preparatorio per il drappo della Giostra raffigurava, chiuse in uno spazio triangolare come rilievo nell'angolo di un antico frontone, Venere e Cupido. Tommaso del Verrocchio, elencando le opere del fratello Andrea sul Registro degli incarichi, ricordava "la dipintura d' uno stendardo con uno spiritello per la giostra di Giuliano". Per la passione di Giuliano dè Medici verso la musica e la poesia e per le sue capacità oratorie, Marsilio Ficino gli dedicherà il De furore divino. Lorenzo il Magnifico, poeta egli stesso, scrive numerose opere in versi e in prosa, passando dalle poesie d'amore, ai dialoghi filosofici, ai poemetti burleschi; è sua la famosa rima “Chi vol esser lieto sia , del doman non v’è certezza” Comunque non solo le arti fini a se stesse erano importanti: Lorenzo il Magnifico coltivò le passioni del nonno Cosimo per l’alchimia e la scienza sacra; nel 1471 Ficino aveva finalmente redatto la stesura definitiva del Corpus Hermeticus interpretando fedelmente l'antico testo greco, e gli eruditi fiorentini furono convinti di possedere il più antico monumento della teologia egiziana. La matrice laurenziana di questa ondata occultistica non è però unica e autosufficiente. Se nella Firenze pre-Savonarola molti, e tra gli altri Matteo Palmieri, Paolo dal Pozzo Toscanelli e lo stesso Pico, si dedicavano all'Astrologia, riscoprivano la Cabala e formulavano una nuova definizione della "Magia naturale", si diffondeva ovunque, anche se in Toscana meno che altrove, il fenomeno popolare della cosiddetta "stregoneria". Non deve stupire quindi che certi ambienti conservatori, legati alla Chiesa e a varie fazioni contro i Medici, andavano scoprendo straordinarie perversità nella cultura fiorentina spingendo la Chiesa a distribuire scomuniche e minacciare i frequentatori dell’Accademia di eresia. Ma i platonici di San Marco non erano più dei sognatori. Erano divenuti degli "iniziati", adepti di una teosofia misteriosa che permeava le opere degli artisti e il fascino misterioso dell'esoterismo, che da allora venne ad avvolgere il Rinascimento fiorentino, non venne turbato dalle numerose minacce esterne. Nella Firenze quattrocentesca i misteri alchemici erano diffusissimi. Scrive il Vasari: "Paulo (Uccello) lavorò in fresco la volta de' Peruzzi a triangoli in prospettiva, ed in sui cantoni dipinse nella quadratura i quattro elementi ed a ciascuno fece un animale a proposito. Alla terra una talpa, all'acqua un pesce, al fuoco la salamandra e all'aria il camaleonte che vive e piglia ogni colore". In quest’ambiente si trovò coinvolto Leonardo, ancora giovinetto e alle dipendenze del Verrocchio , fino al 1482 quando venne inviato dal Magnifico alla corte di Ludovico il Moro a Milano con cui Lorenzo aveva stretto patti di amicizia. Lorenzo il Magnifico si spense all’età di quarant’ anni l’ 8 aprile 1492. Gli succedette il figlio Pietro, amante più delle feste e degli esercizi fisici che della cultura e del buon governo.
III - LA CORTE SFORZA Ludovico Sforza, nato a Vigevano 1452, era il quartogenito di Francesco Sforza e di Bianca Maria Visconti. Nel 1480 la stella di Ludovico il Moro (detto il Moro per la carnagione scura) stava cominciando a stagliarsi nitidamente nell'universo politico italiano.(fig.5) Alla morte del fratello Galeazzo Maria nel 1476, tentò in tutti i modi di contrastare la successione del nipote Gian Galeazzo Maria. Ludovico ne divenne segretario e tutore e, di fatto, governò al suo posto. Gian Galeazzo, suo nipote, era timido e riservato, timoroso delle responsabilità del comando e incapace di governare. Per di più era malato (anche immaginario) e passava la sua vita tra medici e divertimenti. Ludovico, astutissimo, gli lasciava volentieri l' apparenza e la pompa del comando, mentre egli muoveva senza troppo clamore le leve dello Stato, riceveva gli ambasciatori e dirigeva la politica. Ludovico si vedeva già sul trono di Milano, ma Gian Galeazzo, nel 1489, sposò Isabella d' Aragona, figlia del re di Napoli, che si rese conto della situazione e informò il padre provocando ostilità fra i due Stati. Nel 1491 Ludovico sposò Beatrice d'Este, principessa della corte di Ferrara. Gian Galeazzo fu relegato a Pavia, mentre Ludovico e la moglie inauguravano nel Castello Sforzesco una corte che divenne la più splendida di tutta Europa. Strinse rapporti di buon vicinato con il casato dei Medici a Firenze, che confinava all’epoca con le sue proprietà, rafforzato anche da continui scambi di letterati e artisti. Ludovico il Moro era anche membro dell’Ordine della Mezzaluna nonchè un ottimo amico di Renato d’ Angiò , una delle menti più illuminate della Cultura dell’ epoca; egli era un cultore della tradizione esoterica e alla sua corte viveva un astrologo, medico e cabalista ebreo, conosciuto col nome di Jean di Saint – Rémy, considerato da molti il nonno di Nostradamus. Il Moro capiva in pieno il valore dell'arte, della letteratura, delle scienze, essendo un uomo coltissimo ed un vero mecenate. Nel periodo sforzesco l’ economia fu aiutata, le scienze si avviarono ad un buon sviluppo, grandi personalità in ogni settore furono membri di una corte principesca tra le prime d’Europa. Bernardino Corio, storico di Milano del periodo di Lodovico il Moro ci lascia scritto: “qui vi sono storici, umanisti e poeti, architetti e pittori fisici ed astronomi o molte di queste cose insieme... eccellentissimi in tutte le arti e scienze”. Basterebbero i nomi di Leonardo da Vinci e di Bramante da Urbino, di Francesco Filelfo e di Giorgio Merula, di Ermolao Barbaro e di Demetrio Calcondila, di Gaspare Visconti, di Lancino Curzio e di Pier Candido Decembrio ( vedi nota a piè pagina) per rappresentare una civiltà milanese nel ruolo di primo piano in campo letterario ed artistico, sulla scia luminosa del Rinascimento italiano. Nella corte degli Sforza, astrologia e scienze occulte erano di casa. Ludovico il Moro aveva sempre al suo fianco Ambrogio Varese, della famiglia dei Rosate, che oltre ad essere il suo medico personale era anche il suo astrologo, e non faceva nulla senza avere consultato le stelle; portava sempre al collo un potente talismano che era stato preparato apposta per proteggerlo e garantirgli salute e potere. Bisogna altresì ricordare che era molto in uso, nella corte Sforzesca, l’uso dei Tarocchi sia come gioco che come percorso iniziatico che come mezzo divinatorio. I più antichi tarocchi italiani di cui si sappia furono appunto approntati per le signorie Visconti-Sforza a Milano. Nel 1496 il Moro si vanterà di essere signore onnipotente, di avere il papa come cappellano, l'imperatore come condottiero, i Veneziani come tesorieri, il re di Francia come servitore personale.Il ducato di Milano, sotto di lui, riacquista grande peso politico.Egli intervenne attivamente nelle vicende dell'Italia, stringendo dapprima un accordo con il re di Napoli, e poi favorendo l'intervento della Francia contro di esso e contro altri principi italiani nella speranza di rafforzare il proprio potere. Preoccupato però dal successo di Carlo VIII, non esitò a entrare in una coalizione antifrancese, con il re di Napoli, Firenze e il papa, che provocò la cacciata del sovrano dalla penisola. L'avvento al trono di Francia di Luigi XII d'Orléans che, come discendente di una Visconti, accampava diritti su Milano, provocò però la sua rovina. Attaccato da una lega formata da Venezia, Giulio II e il re di Francia, fu costretto ad abbandonare Milano e a rifugiarsi a Innsbruck (1499). Di lì tentò la riconquista dei suoi possessi, ma tradito dagli Svizzeri a Novara (1500) fu catturato dai Francesi che lo imprigionarono a Lys-Saint-Georges e poi a Loches dove morì nel 1508.
Nota: Alcuni cenni sui nomi citati: - Francesco Filelfo : umanista e grande conoscitore di Latino e di greco, fu per lungo tempo presso gli Sforza a Milano e scrisse per loro un poema, le Sforziadi, in cui elogiava il casato. Venne inviato dagli Sforza a Firenze nel 1481 su richiesta di Lorenzo il Magnifico, dove morì poco dopo. - Giorgio Merula (Alessandria 1431-Milano 1494) : umanista italiano, discepolo a Milano di F. Filelfo. Dal 1465 al 82, è a Venezia; chiamato poi da Ludovico il Moro, insegna nelle università di Pavia e di Milano. - Ermolao Barbaro (Venezia 1453 [o 1454] - Roma 1493) : intrapprese un'importante carriera diplomatica che lo condusse a viaggiare in Italia e ad entrare in contatto con le personalità e gli ambienti culturali dell'epoca. Le sue eccellenti competenze filologiche gli consentirono di interpretare e commentare Aristotele, Dioscoride, Plinio. Sull'opera pliniana, in particolare, scrisse le Castigationes plinianae et in Pomponium Melam (1492-1493), con le quali segnalava gli errori prodotti dagli amanuensi e dai curatori e scagionava, così, il naturalista latino dalle accuse mossegli dal Leoniceno. - Demetrio Calcondila ( Atene 1424-Milano 1511) : era tra gli intellettuali greci emigrati in Italia nel 1447. Insegnò greco a Perugia Padova Firenze (su invito di Lorenzo Medici) Milano; ebbe come discepoli Poliziano, i figli di Lorenzo Medici, Castiglione, Trissino. Calcondila tradusse Galeno, Isocrate, Suida, curò l'edizione principe di Omero del 1488, lasciò una grammatica greca (Erotemata, 1493) costruita secondo uno schema di domande e risposte. - Gaspare Visconti (1461-1499), signore di Zeloforamagno: poeta e consigliere di Ludovico il Moro , ingaggiò con Bernardo Bellincioni un “duello” poetico su Bramante voluto dalla duchessa di Milano. Poetava il Visconti: "Quanto è Bramante ai mondo huom singulare ciascun a questa estate il vede e intende e si potrebbe piu presto numerare / …nei cieli l'anime sante / che dir le cognition ch'a in se Bramante". (…) - Lancino della Corte detto Lancino Curzio :allievo di Giorgio Merula, nato nel 1460. Era considerato uomo estroso e bizzarro per il modo di vestirsi. Fra le sue opere: Meditatio in hebdomadam Olivarum, sonetti in dialetto dedicati a Gaspare Visconti, suo mecenate; satire sulla persona e sull’opera di Baldassare Sacconi, segretario di corte e poeta; sonetto contro Ludovico il Moro, scritto nel 1500; Epigrammi stampati nel 1521. Muore il 2 febbraio 1512 e viene sepolto in S. Marco (a Milano), nella cripta sotto l’altare maggiore. Lancino aveva lasciato molti suoi libri al convento di S. Marco. Il monumento funebre è commissionato dal fratello Giovanni Francesco nel 1513 al Bambaja ( allievo tra i preferiti da Leonardo), ma non essendo finito nel 1515, la Fabrica del Duomo concede a Cristoforo Lombardo il permesso di prestare il suo aiuto. La lapide, dettata dall’amico Stefano Dolcino, che lo celebrava come “poeta immortale” venne tolta nel 1799. - Pier Candido Decembrio :nato a Pavia il 24 ottobre 1392 (ma lui sosteneva 1399), da Uberto Decembrio di Vigevano. Fu assunto come segretario ducale nel 1419 (capo della cancelleria) grazie al prestigio paterno. Nel 1438 dava a Giovanni Matteo Bottigella la sua traduzione della Storia di Alessandro e di Giulio Cesare di Quinto Curzio, dedicata a Filippo Maria Visconti e miniata nella bottega milanese dell’anonimo “Maestro del Vitae Imperatorum ”. Fu chiamato a Roma, dove dal 1447 è stato eletto l’umanista Tommaso Parentucelli col nome di Niccolò V, dal quale ricevette l’ incarico di tradurre dal greco in latino la Storia romana di Appiano (con scarso esito) e la Biblioteca storica di Diodoro Siculo (cominciò il libro XVI e si fermò quasi subito). Dopo varie vicissitudini in giro per l’Italia come diplomatico a servizio di papi e principi, ritorna a Milano dove muore nel 1477
IV - LEONARDO ESOTERICO Una delle cose che maggiormente stupisce leggendo le 13.000 pagine circa dei Codici e dei Manoscritti di Leonardo, è quanto poco lui parli delle sue cose personali. Ci sono annotazioni di ogni tipo: 1.500 disegni che da soli potrebbero essere quadri e che sopperiscono in parte alla scomparsa di alcune sue opere pittoriche, un’ infinità di schizzi di tutte le misure e di qualsiasi cosa inventabile, scrive di pace ma abbozza macchine belliche, è vegetariano ma riporta migliaia di disegni sull’ anatomia animale e dell’ anatomia umana troviamo anche i minimi particolari, tiene i conti di casa, quale e quanta biancheria manda a lavare,perfino barzellette e poesie e favole, elenca dettagliatamente le spese per il funerale della madre........ Ma di quattro cose Leonardo non parla mai: dei suoi sentimenti, di Dio, di astronomia (fatto salvo uno schizzo sull’eclissi) e della Festa del Paradiso. Eppure non possiamo pensare che Leonardo non avesse sentimenti: egli fu uomo come tutti noi. E non possiamo pensare neppure che la religione non avesse alcun peso nella sua vita: a quell’ epoca la religione e la scienza facevano spesso un tutt’ uno. Neppure della Festa del Paradiso possiamo pensare che non ci sia mai stata: due illustri personaggi dell’epoca ne furono testimoni e ne scrissero ( Bernardo Bellincione e Iacopo Trotti ). Tutto questo mi ha portato a cercare di sapere qualcosa di più di questa parte nascosta di Leonardo. Egli fu uomo del suo tempo e per questo è importante conoscere il mondo culturale in cui visse, come abbiamo visto scorrendo la storia delle Corti Medicee e Sforzesche. Non si può pensare che Leonardo non avesse una fede religiosa anche se non ortodossa, tanto che anche lo stesso Vasari, suo biografo e contemporaneo , lo definisce “ una mente eretica” . Comunque non è chiaro che cosa potesse costituire di preciso tale eresia. Egli seguì certamente sin dai primi tempi della sua vita pubblica, alcune correnti religiose che si rifacevano al culto di Giovanni Battista, i Giovanniti, che vedevano in Giovanni Battista il Messia Sacerdotale, in contrasto con il Messia Dinastico, cioè Gesù. Possiamo renderci conto di questo analizzando alcune sue pitture come l’ Adorazione dei Magi ( 1481-82 ), il Cenacolo (1495-98 ), il cartone de Sant’ Anna la Madonna il Bambino e San Giovannino (1501-05) il San Giovanni ( 1508-13), il San Giovanni Battista - Bacco ( 1510-15 ), dove è presente il cosidetto “segno del Battista” : la mano alzata con l’indice che punta in alto. (fig.6) Ma anche nella prima versione de la Vergine delle Rocce del 1483-86, quella per intenderci attribuita solamente a lui e non dipinta con l’ausilio della sua scuola, è presente il gesto del Battista ed è ancora più esplicito se si considera , oltre al dito indicante dell’ angelo, anche il gesto della Madonna. Visto nel suo insieme possiamo vedere la mano ad artiglio della Madonna come appoggiata su un capo e il gesto dell’ angelo quasi indicante una decollazione. Anche ne La Madonna dei Fusi ( 1501) ritroviamo un’analoga posizione della mano della Madonna e la mano sinistra del Bambino poggia sulla croce-fuso con gesto simile al “ segno di Giovanni”. Da notare anche un’altra particolarità delle opere di Leonardo: se non nelle sue prime opere, tutti i personaggi che egli raffigura nei quadri a soggetto religioso sono mancanti di aureola. Anche nella Vergine delle Rocce le aureole sono presenti solo nella seconda e nella terza versione, quelle realizzate probabilmente dalla Scuola. Con tutti questi preamboli, quando arrivai ad affrontare il grande buco rappresentato dalla mancanza di materiale inerente alla Festa del Paradiso, mi si aprirono davanti varie strade, ma una solamente è quella che ritengo più plausibile. Quando lessi la descrizione del Trotti e il testo del Bellincione una cosa mi saltò subito agli occhi: come le nozze Sforza–Aragona venissero poste in parallelo alle nozze alchemiche.(fig.7) Dall’ Empireo dove solitamente abitano, i sette Dei - Pianeti (Giove, Apollo, Marte, Mercurio, Luna, Venere e Saturno), scendono sul monte a benedire l’ Unione tra Maschile e Femminile. Nozze alchemiche, dunque, non nozze religiose. Altra cosa da tenere in mente è la scelta della collocazione dello spazio legato alla rappresentazione della Festa: la Sala Verde ossia la Cappella privata di Ludovico il Moro. Ecco così che viene in parte svelata l’idea religiosa di Leonardo, avvalorata ulteriormente dalla posizione in cui viene inserito l’ Empireo contenente gli dei, cioè sopra l’ altare principale della cappella. Come se, a questo punto, la vera religione non fosse quella indicata dalla Chiesa Romana, bensì la tradizione Esoterica ed Alchemica. Diventa così palese la preferenza di Leonardo (e di Ludovico): la religione ufficiale viene spodestata dall’ Antico Sapere. (Per le osservazioni suddette, quando venne usato il “ limbo” per la riedizione della Festa, decidemmo di retroproiettare sul fondale bianco che delimitava la scena, delle immagini recuperate da testi antecedenti il 1500 e legate alla visione mistico-esoterica ed iniziatica dell’epoca.) Bisogna anche tener conto che Leonardo, oltre che di astronomia, non parlò mai nelle sue pagine neppure di astrologia e questo è una cosa strana per un Uomo-scienziato di quel tempo. Non basta pensare che ci fosse qualcuno nelle corti già specializzato in questo. E in definitiva bisogna dire che Leonardo di tutto questo parlò, e la descrizione della Festa del Paradiso ne è l’esempio. Allora ci salta per forza in mente un’altra domanda: “ma se Leonardo ne parlò e ne scrisse.....perchè non ce n’ è rimasta traccia?”. Una sola risposta mi appare come la più plausibile......egli ne scrisse su un altro Codice. Dato che alla fine del Medioevo e all’inizio del Rinascimento, la Chiesa aveva posto l’accusa di eresia su tutto ciò che rappresentava una Conoscenza alternativa, si può ipotizzare che Leonardo nascose o distrusse tutto ciò che aveva appuntato al proposito. Ma siccome all’ uomo di Vinci era caro annotare e conservare tutto, la risposta principale è che ciò che scrisse fu da lui stesso nascosto o da qualcuno dopo di lui. E dove? Le ipotesi sono molteplici, tralasciando quella di un anfratto nascosto. Si può pensare che Leonardo affidasse i suoi scritti più eretici o ad un amico fidato o alla conservazione presso una congregazione di cui faceva parte. Le ipotesi che vogliono Leonardo come Gran Maestro o comunque appartenente al presunto Priorato di Sion , visto che poi egli morì non lontano da quei luoghi, lascerebbe pensare che i suoi scritti eretici siano stati lasciati in eredità proprio ad esso. Non bisogna comunque scordare che la madre del re di Francia Francesco I°, che accolse Leonardo negli ultimi anni della sua vita, era una Savoia. Questo va a collimare con l’ ipotesi che suppone Leonardo artefice della Sacra Sindone proprio su commissione del casato Savoia, e che proprio questo potrebbe essere il depositario degli scritti “ eretici ” vinciani. Come pure non sono da escludere come depositari la setta Giovannita e , più avanti nel tempo, la Congregazione di San Giovanni dei Fiorentini. Esiste comunque un’ ulteriore possibilità : che i suoi scritti siano caduti in mano al “nemico”,cioè quella Chiesa Romana che lui mai amò e che ,salvo l’eccezione del papa Medici Leone X°, gli distribuì solo accuse di eresia, e che gli scritti possano ora essere conservati, ignorati da tutti, negli Archivi Vaticani. Comunque alle mie domande, solo eventualmente il tempo potrà dare una risposta certa, sperando che, con l’attenuarsi di alcune situazioni o il cambiamento di altre, gli Archivi , a qualsiasi realtà appartengano, possano essere finalmente aperti e perchè possano consegnare il loro scrigno di conoscenza all’ Umanità tutta.
L'INFERNO E IL PARADISO DI LEONARDO (PRIMA PARTE)
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